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È incredibile come ci sia voluto tanto tempo affinché i King Gizzard & the Lizard Wizard arrivassero a questo punto di non ritorno. Dopo aver stupito con esperimenti psichedelici che spaziano dal garage rock a suoni inaspettati come krautrock e dream pop, ora ci propongono il loro 27° album, Phantom Island. Un’opera che, a tratti, è frustrante, a volte bellissima e quasi sempre interessante, anche se non del tutto amabile. Qui si tratta di un viaggio tra l’assurdo e il sublime, un vero e proprio giro sulle montagne russe del non-sense.
Un esperimento orchestrale
Registrato in parallelo con il vivace Flight b741, Phantom Island non era stato concepito con arrangiamenti orchestrali in mente. Ma, beh, chi se ne frega! Dopo aver incontrato membri della Philharmonic di Los Angeles, la band decide di lanciarsi in un altro esperimento. Le prime mix si sentivano incomplete, quindi perché non aggiungere un po’ di pompa orchestrale? Inviando mix a Chad Kelly, il direttore britannico che ha saputo dare vita a un gruppo di musicisti per sovraincidere i brani originali, il risultato è un caos affascinante.
Tensioni piacevoli e dissonanze
Questa incongruenza di mondi musicali crea una tensione che, a volte, risulta piacevole. Prendete il brano di apertura, Phantom Island: le cornamuse rilassate sembrano richiamare l’epoca d’oro delle colonne sonore di Blaxploitation. Certo, non si sposano affatto con i versi da sogno, ma chi se ne frega delle coerenze? E che dire di Sea of Doubt, dove violini e flauti fluttuano leggeri, ma finiscono per distogliere l’attenzione dalle chitarre country-rock di Stu Mackenzie e Joey Walker? Non si può avere tutto nella vita, giusto?
Magie effimere
Quando i mondi della psichedelia e dell’orchestra riescono a coesistere, scoppiano scintille di magia. Deadstick esplode in una gioiosa anarchia con una sezione di ottoni, mentre Panpsych si apre con un flauto solista che si trasforma in un groove irresistibile. E la linea di basso di Lucas Harwood su Aerodynamic si intreccia così bene con l’orchestra da sembrare impossibile separarle. Kelly ha progettato arrangiamenti per dare a Phantom Island il decollo che merita, un po’ come se fosse un aeroplano ben costruito. Ma, ehi, chi non ha mai desiderato avere le mani trasformate in ali?
Un potenziale sprecato
Ma non tutto luccica. Spesso, i brani sembrano sovraccarichi, con momenti grandiosi accantonati in fretta per arrivare a qualcosa di meno memorabile. Lonely Cosmos, in tutta la sua bellezza spoglia, non aveva bisogno di trasformarsi in un’odissea jazz-funk. E Silent Spirit ha una grande canzone country-fried nascosta sotto proclami falsetto che affermano che ‘il tempo sta mangiando il suo ultimo pasto’. Ma chi se ne importa, i King Gizzard & the Lizard Wizard hanno conquistato un seguito di culto che li ha seguiti attraverso territori molto più bizzarri di questo.
Un capolavoro di sci-fi
Quando sono al loro meglio, i King Gizzard possono affrontare concetti di fantascienza senza cadere nell’assurdo. Spacesick, il brano migliore di Phantom Island, riesce a mantenere il focus, esprimendo quel pathos unico di guardare la Terra sorgere nello spazio. Non avrà le melodie grandiose di Rocket Man o Space Oddity, ma riesce a bilanciare un’ambizione intergalattica con una sagacia e una melodia che molti autori meno abili scarterebbero in un batter d’occhio. Se solo Mackenzie non fosse stato distratto da una stella cadente, forse non avrebbe mai partorito una linea così toccante: ‘Per sedere su sedie che toccano il pavimento, per questo darei tutto’. Phantom Island è un viaggio libero e ambizioso, e possiamo solo sperare che, ridotto un po’, avrebbe potuto rivelarsi davvero avvincente.